di Alberto Benassi
(il NON senso del limite)
Possedere senso del limite è buona cosa, diciamo pure che è salutare, soprattutto in alpinismo. Qualcuno dice che l’alpinista più forte non è quello che fa le cose più difficili ma colui che si diverte di più. Qualcun’ altro, ironicamente più dotato, aggiunge che è colui che campa di più! Tutto questo è senza dubbio sensato, da buon padre di famiglia. Ma cosa c’è di sensato in alpinismo? A mio avviso poco per non dire nulla! Alpinismo è sinonimo di incertezza, continua ricerca di qualcosa di nuovo, di sempre più difficile, magari anche di pericoloso. Un impegno continuo a cercare di “alzare l’asticella” a spostare il limite con ambiziosi progetti, vittorie e naturalmente anche sconfitte. Si perché le – sconfitte – fanno parte del gioco. In una sola parola alpinismo è: avventura! Tutto questo fa parte dell’ essere alpinista, ma in fondo dell’uomo in genere: cercare di fare sempre di più, come una corsa continua verso qualcosa di inarrivabile, di inafferrabile, come la sabbia che ti scivola tra le dita delle mani. Sali una vetta, poi ce ne subito un’altra e un’altra ancora. Poi vie e ancora vie, una salita dietro l’altra, senza sentirsi mai sazi. Come quando mangi le ciliege: una tira l’altra. Fai appena in tempo a fare una via, che già ti trovi a pensarne un’altra. Assuefatti da un’eterna insoddisfazione o da ingordigia di successi?
“Il problema è risolto, ma il gusto della vittoria è amaro. Rivedo i tentativi, le ritirate… Qualcosa di sconosciuto, di affascinante che se ne va. Forse lo stato di perenne insoddisfazione della natura umana non può renderci paghi delle nostre conquiste. Esaurito un problema, subito si va in cerca di un altro anello di una catena interminabile.” (1)
Ci hanno insegnato che non dobbiamo superare i nostri limiti. Ne va della propria sicurezza. Fare esperienza, imparare facendo un passo alla volta senza bruciare la tappe, scegliendo il momento giusto per fare il passo successivo. Ascoltare quella vocina che viene da dentro e a volte ti dice che non è il caso di continuare, che non è la giornata giusta. Tutti consigli sacrosanti che anche io ho cercato (sempre ?…mmh) di rispettare nella mia attività e ho trasmesso (questo si!) agli altri. Ma è altresì vero, che se l’uomo non avesse cercato il superamento dei propri limiti e non avesse avuto il coraggio o l’incoscienza di andare a vedere cosa c’è oltre le Colonne d’Ercole, forse ancora oggi sarebbe all’epoca delle caverne. Così come l’esploratore che va verso l’ignoto, anche l’alpinista ha continuamente cercato nel suo cammino di superarsi. Prima le cime per le vie normali per l’itinerario più facile, poi le creste. In seguito le pareti più difficili, da prima per l’itinerario più semplice, poi per la via più diretta possibile. Quindi le prime invernali, le solitarie, magari in free-solo. Infine nell’alpinismo è arrivato lo sport con i concatenamenti e con la corsa a salire le vie nel minor tempo possibile, alla conquista dei record di velocità. Certo che senza vincere le proprie paure, Balmat e Paccard spaventati dalle fauci del ghiacciaio non avrebbero conquistato il monte Bianco. Edward Whymper non avrebbe vinto la corsa sul Cervino in lotta con Jean-Antoine Carrel. Walter Bonatti non avrebbe trascorso cinque epiche e solitarie giornate sul pilastro sud ovest del Dru anticipando di parecchi anni la storia dell’alpinismo. Renato Casarotto non avrebbe superato la lunghissima, difficile e pericolosa – Ridge of no return – al Denali e non solo. Ed ancora il fuoriclasse Ueli Steck, soprannominato “Suisse Machine” non avrebbe salito da solo e in velocità (28 ore andata e ritorno!) l’enorme ed estremamente difficile parete sud dell’ Annapurna. E via così per molti altri, dai più famosi, che hanno fatto la storia, agli sconosciuti. Ognuno di noi ha cercato di alzare la propria asticella. Molti ci sono riusciti, le imprese più strabilianti sono li a dimostralo. Per altri invece, questa continua corsa verso l’alto, si è conclusa con un non ritorno. Spesso sono stati i migliori a non ritornare. E’ successo al mio amico Giorgio Giannaccini in una freddissima giornata di dicembre sul pilastro dei Carrarini alla Pania della Croce in Apuane. Giorgio e il suo compagno non sono tornati. E’ successo al carismatico Gianni Comino, che nel visionario tentativo di alzare la sua asticella, aveva scelto i temutissimi seracchi tra la Poire e la Mayor sulla grande parete della Brenva del monte Bianco. Forse, anche perché sapeva quanto il gioco fosse pericoloso, Comino ha deciso di andarci da solo, per non mettere a repentaglio la vita del suo compagno di sempre Gian Carlo Grassi. A proposito di Comino così riferisce Marco Bernardi :
“Gianni aveva un carisma particolare; il suo modo di intendere l’alpinismo era “intellettualmente” onesto: non cercava riconoscimenti ma solo il vero significato delle cose. Viveva l’alpinismo come accettazione del rischio, era una persona razionale e sapeva esattamente la percentuale di probabilità di morire che doveva assumersi facendo determinate salite. La accettava, cercando il significato della vita in questa sua azione. Dal breve rapporto di amicizia avuto con lui tra il ’79 e l’80 ho capito che morire nel tentativo di aprire nuove strade è moralmente giusto. Non è importante stabilire se l’azione di per sé sia etica, cioè se morire scalando una montagna sia giusto o no, ma è l’esistenza di uomini e donne che sanno morire per una “idea” o un ideale che ha permesso all’umanità di evolversi e di migliorarsi. Gianni trasmetteva questa visione: solo quando si ha qualcosa per cui vale la pena di morire allora si percepisce il significato profondo della vita“ (2) ;
E’ purtroppo di poco tempo fa la triste notizia della morte, durante una salita di allenamento sul Nupste, del grande Ueli Steck che sopra ho citato. Ueli si stava preparando ad un’altra delle sue incredibili imprese ancora mai tentata: la traversata Everest-Lhotse. Il fato, il destino, la follia, la sfortuna… non hanno permesso, a queste persone, di alzare ancora una volta la loro asticella. Nel caso di Ueli forse, dico forse, anche il peso degli sponsor…? Anche io, modesto ma appassionato alpinista, c’ ho messo del mio per cercare di alzare l’asticella e continuare ad alimentare la “conquista dell’inutile”. Certamente nulla di confrontabile con i mostri sacri, ognuno fa quello che può. Da prima con le ripetizioni, dalle più facili alle più difficili (almeno per me). Poi con l’apertura di vie nuove di roccia, di ghiaccio e di misto. Perché è con l’apertura di nuovi itinerari che possiamo maggiormente esprimere la nostra concezione dell’alpinismo, dell’arrampicata. Tracciando il proprio solco come l’artista fa con la propria opera d’arte. Poi con molto timore e dubbi, sia verso me stesso, che nei confronti delle persone care e delle responsabilità della vita, perché come direbbe Armando Aste, la vita è un dono è non va giocata ai dadi (anche lui però mica ha scherzato con l’alpinismo), sono passato anche alle solitarie: estive ed invernali. Cercando, anche per ambizione, di fare in solitaria itinerari che ancora non l’avevano. Già perché l’ambizione, diciamolo pure, in alpinismo mica conta poco, non possiamo fare finta che non ci sia. La – corsa – di R. Messner ad arrivare primo, nella gara non dichiarata ma evidente per la conquista dei 14 ottomila ne è un esempio. Ma nella storia dell’alpinismo ce ne sono tanti altri. Saputo della mia solitaria alla via dei Fiorentini alla parete sud-ovest del monte Nona, Carlo Barbolini, dopo i rituali complimenti, mi disse: “Alberto sei mica in crisi con la Sabrina?” No nessuna crisi amorosa, nessuna crisi personale. Non è questo che mi ha spinto. Si è vero ci sono state imprese alpinistiche stimolate da stati di crisi. Bonatti stava attraversando un momento difficile a causa della storia vissuta al K2. Doveva dimostrare a se stesso e, forse agli altri, quello che era ancora capace di fare. Per questo, dopo un primo fallito tentativo, escogitò un bel sistema di riscatto personale, cercando di alzare l’asticella, andando al pilastro sud-ovest del Dru da solo:
“Questa seconda sconfitta mi pose in uno stato di profonda depressione psichica, fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso colmo di delusione e amarezze già dai tempi del K2. Sarei tornato al Dru da solo per vincerlo e dimostrare così a me stesso di non essere finito“ (3)
A differenza sua, le mie motivazioni sono molto meno nobili. Ho desiderato e fatto questa prima solitaria al monte Nona, per diversi motivi. Come ho già detto, un po’ per ambizione: essere il primo a farla e passare alla storia sui sacri testi. Va beh dai questo è solo autoironia spicciola. Ma anche perché mi sembrava una cosa diversa, e nel momento storico in cui l’ho fatta, decisamente controcorrente per l’alpinismo apuano. Poi c’è l’aspetto più intimo, vero motore di queste avventure: un confronto diretto a tu per tu con la montagna, con te stesso, dove sei solo te a decidere. Non appagato, in seguito mi sono ripetuto con la prima solitaria alla via Zappelli sulla nord del Pizzo delle Saette. Questa volta però ho alzato ulteriormente l’asticella andandoci d’inverno. Spesso mi sono fermato a pensare: “questa continua corsa ad alzare sempre l’asticella ha un senso o magari è solo una follia ? “. Non sono riuscito a darmi una definitiva risposta , se non nel cercare di accontentare questo continuo ed impellente bisogno di andare oltre. In effetti quando non riesco a – muovere la classifica – sento che mi manca qualcosa. Tutto questo può essere una droga a cui non so rinunciare, che mi condiziona la vita? Anch’io farò parte di quei “Falliti” che descrive Giampiero Motti nel suo celebre e illuminante quanto triste scritto: riusciti in alpinismo ma falliti nella vita? Od ancora come canta Bruce Sprigsteen in una sua famosa canzone: siamo nati per correre: Born to Run ? Ultimamente lo dice anche Renzi che bisogna: correre ! Per andare chissà dove poi ? Semplicemente non lo so. Non ho una risposta, oppure non la vedo. Dico solo che la montagna, l’arrampicata, l’alpinismo fanno parte della mia vita. Sono quello che sono anche perché vado in montagna e faccio alpinismo. Anche se diversi amici che hanno condiviso questa passione non ci sono più. Anche se mio padre continua a dirmi se non mi sono ancora stufato di salire su questi “soliti sassi” dopo tutti questi anni. Nonostante tutto questo, arrampicare mi da ancora forti emozioni e quasi quasi mi riesce meglio oggi, nonostante gli acciacchi, di quando ero giovane e… forte. No, un momento…forte non lo sono mai stato…meglio dire appassionato. Certamente non c’è più quel senso di scoperta, di spensieratezza e di novità che caratterizzava la gioventù alpinistica, quando le scalate più semplici erano vissute come grandi avventure. E, leggendo le romantiche gesta bonattiane dei “I Giorni Grandi” , sognavamo immedesimandoci nell’eroe Bonatti. Forse anche per questo che bisogna cercare di alzare l’ asticella muovendo continuamente la classifica? Dai forza Albè, non fare il romantico nostalgico, datti una mossa! La solitaria alla via Dolfi-Lumini non l’hai ancora fatta. Sono anni che ne parli, che aspetti? Il tempo passa e l’asticella, nonostante l’entusiasmo, è sempre più dura alzarla. Ho detto l’asticella…che avete capito…? 25 aprile 2017 falesia della Pietrina, riesco a salire “Nonno Tibia” proteggendomi solamente con i friends. Come si dice oggi? A si, arrampicata trad. La Sabri che mi fa sicura non so se è preoccupata che mi possa fare del male, cosa non del tutto esclusa. Oppure scocciata per queste mie ragazzate, visto che ragazzo non sono più da tempo. Ci avevo già provato un paio di settimane prima ma ero stato costretto a riposarmi. Del resto… “il piede stà dove la mano tiene”… e fermarmi a mettere nuts e friends, mi aveva cotto le braccia. Questa volta, oltre che facilitato dal precedente tentativo, ci metto anche più determinazione e riesco a farla in continuità. Oggi questi piccoli, ma intensi venti metri, sono stati per me, pura AVVENTURA. Lo so direte voi: “avventura su venti metri ? Ti accontenti di poco!” . Può darsi. Ma a volte basta veramente poco, non bisogna per forza andare in Patagonia o in Himalaya per…alzare l’asticella. L’avventura spesso è dietro l’angolo. Basta avere curiosità, entusiasmo e voglia di mettersi in gioco. Ma soprattutto continuare a sognare.
Alberto Benassi
1) da Gogna Blog – La storia di un diedro di Gian Piero Motti.
2) da Gogna Blog – presentazione al libro di Paolo Castellino – C’è un tempo per sognare – la storia di Gianni Comino, Idea Montagna, 2017
3) Walter Bonatti.