Buongiorno Nives, grazie innanzitutto per la disponibilità; La prima domanda è ovviamente riferita alle Alpi Apuane: ha mai arrampicato su queste montagne? In che modo le conosce?
Non ho avuto mai occasione di frequentare le Apuane, sono stata però invitata da alcune sezioni toscane del CAI in occasione di conferenze e quindi ho avuto modo di conoscere chi le frequenta e di poter scambiare delle opinioni con loro. Purtroppo non le ho mai arrampicate.
Qual’è la sua concezione di alpinismo, soprattutto in relazione a chi ne ha fatto un terreno di competizione esasperata?
Premetto che un minimo di competizione è insita nell’essere umano e che è una componente che ciascuno di noi ha, a diversi livelli. Se parliamo di alpinismo himalayano, in questo momento la situazione è un po’ particolare in quanto, riflettendo le esigenze della società moderna, si assiste ad una forma di turismo d’alta quota; come succede ad esempio sull’Everest dove ogni anno 300-400 persone salgono in vetta, quasi tutte con l’ausilio di bombole d’ossigeno ed il lavoro di portatori d’alta quota. Persone che spesso non hanno la minima esperienza alpinistica e si affidano agli Sherpa i quali attrezzano i campi, allestiscono la parete ed a volte tirano o spingono anche i loro clienti durante la salita. La volontà in questi casi è quella di vivere l’esperienza, addomesticare l’avventura al massimo e quindi ridurre al minimo i rischi per poter tornare a casa e raccontare di aver raggiunto il traguardo.
Questo non è ovviamente il nostro modo di andare in montagna, forse perché noi siamo innanzitutto nati come alpinisti nel millennio scorso, iniziando sulle Alpi Giulie, montagne che per diversi motivi, geografici e storici, sono rimaste a lungo isolate costituendo linea di confine tra due mondi e quindi montagne non frequentate. Questo ci ha di conseguenza insegnato un alpinismo autosufficiente dove si andava in montagna con la consapevolezza di doversela cavare autonomamente sia dal punto di vista fisico che psicologico, in qualsiasi situazione. Un approccio particolare alla montagna, facendo sempre i conti con le proprie capacità ed i propri limiti, senza mai oltrepassarli. Questo è l’alpinismo che noi abbiamo portato anche in Himalaya, avvicinandoci a questa montagna con la stessa filosofia. Così come su tutti gli ottomila, siamo sempre andati senza bombole d’ossigeno, senza portatori d’alta quota e con il minimo di campi prefissati; il che vuol dire cercando di salire gli ottomila come si salgono le Alpi: “campo in spalla” e in completa autonomia.
Il sogno di tanti sportivi è quello di poter condividere la propria passione con il compagno o la compagna di vita. Lei e Romano ci siete riusciti, come vivete questa passione comune, anche in relazione alla notorietà che ne è derivata?
Il fatto di poter condividere una passione con il proprio compagno è fondamentale; in primo luogo perché l’alpinismo a certi livelli è un’attività che richiede molto tempo. Una spedizione per gli 8000 come minimo ha la durata di due mesi e di conseguenza sarebbe stato difficile che solamente uno dei due riuscisse a raggiungere questi risultati. Anche perché sin dalla prima spedizione ti rendi conto che la parte alpinistica è solo uno degli aspetti del viaggio ma è altrettanto fondamentale tutto il percorso di avvicinamento alla montagna che costituisce una vera e propria esperienza di vita, molto ampia, che va vissuta sicuramente assieme per poter continuare a parlare la stessa lingua. Ovviamente ognuno di noi ha vissuto queste esperienze con la propria prospettiva, ma integrando i due punti di vista è stato sicuramente possibile crescere assieme, come coppia nella vita e come sportivi. Per quanto riguarda la notorietà è logico che in quanto femminuccia, visto che al momento non ci sono ancora donne che hanno salito tutti e quattordici gli 8000, i riflettori siano puntati su di me.
Uomini che hanno salito tutti gli 8000 ce ne sono almeno una dozzina, anche se andando a selezionare solo quelli che sono saliti senza ossigeno e senza portatori, per tornare alla domanda precedente, il numero risulta molto inferiore, di conseguenza fanno meno notizia. La notorietà in quanto donna è però sempre stata un arma a doppio taglio perché l’alpinismo, specialmente quello d’alta quota, era inizialmente ritenuto un terreno di gioco maschile; le prime apparizioni femminili risalgono agli anni ’70, di conseguenza la diffidenza nei confronti delle donne è evidente. Essendo poi la montagna un terreno di competizione, anche se non di gara, e ritrovandosi a volte a condividere tutti assieme alcune fasi dell’impresa, come ad esempio nei campi base, questo può creare in alcuni delle tensioni. L’atteggiamento nei confronti delle donne è ancora un po’ prevenuto; ricordo che all’inizio, per quanto io avessi lo stesso curriculum tecnico di Romano, la gente dall’esterno mi diceva: “ma cosa vai a fargli perdere tempo!”. Negli anni questo atteggiamento non è purtroppo cambiato; c’è sempre la tendenza a pensare che Romano mi aiuti mentre in realtà bisognerebbe essere li con noi per rendersi conto che in montagna siamo due alpinisti, come qualsiasi altra coppia.
Esiste un alpinismo Meroi disgiunto dall’alpinismo Benet o c’è al contrario una perfetta comunità d’intenti?
C’è un nostro amico che in alta quota ci ha definiti “una perfetta macchina da guerra”. Inizialmente mi è venuto da ridere ma poi pensandoci mi sono resa conto che in un certo senso è vero; come accadeva negli eserciti della storia, dove per ogni soldato vi era un preciso compito, ciascuno di noi ha le proprie specificità. Mi spiego: Romano è tecnicamente e fisicamente più forte di me, quindi lui mi precede nel senso che, essendo più veloce, va avanti; io invece ho altri compiti all’interno della coppia e ciò ci ha permesso di riuscire ad arrivare ad un equilibrio tra gli elementi della cordata. In Himalaya ovviamente ti muovi sempre slegato, non puoi perdere tempo in salite in sicurezza che risulterebbe oltretutto essere fittizia. Quindi devi essere pienamente consapevole delle tue capacità nell’affrontare un percorso e soprattutto devi tenere ben presente che assieme a te c’è sempre un’altra persona che, nella sua indipendenza, sta affrontando il tuo stesso percorso. Questo sia dal punto di vista fisico e materiale che dal punto di vista psicologico.
Qual’è l’aspetto che le piace di più dell’alpinismo a questi livelli?
La quota sicuramente, è affascinante. Come però dicevo precedentemente, esistono anche un turismo d’alta quota e un alpinismo venduto come prodotto, per cui adesso alcuni alpinisti, per avere il massimo delle garanzie di successo, arrivano persino a spostarsi da un campo base all’altro in elicottero. In questa maniera si toglie tutta la fetta di esperienza che c’è sotto e che io credo sia un altro aspetto importantissimo: l’avvicinamento alla montagna che, a volte, può anche essere di 10-15 giorni. Un cammino che ti fa attraversare valli ed incontrare gente permettendoti di adeguarti a ritmi e velocità alle quali non siamo più abituati. Da noi ci si esprime in km orari li invece si parla di giorni di cammino, di conseguenza si ha la possibilità di prestare nuovamente attenzione ai particolari ed io sono convinta che nei particolari si nasconde la realtà delle cose.
Questo è il modo per far diventare la spedizione un’esperienza particolare; al contrario, utilizzando un elicottero, non si ha la possibilità di calarsi nella realtà del luogo. Dipende ovviamente sempre da ciò che si vuole ottenere, se l’obiettivo è esclusivamente quello del risultato è ovvio che si utilizzi ogni mezzo possibile. Nella corsa alla salita di tutti gli 8000 è recentemente salita agli onori della cronaca una coreana che, solo lo scorso anno, ha raggiunto otto delle quattordici vette. Non è che questa ragazza abbia scoperto la pozione di Asterix! Nel momento in cui viene fatto un investimento in termini di denaro, ottimizzando tutto con trasferimenti in elicottero da un campo all’altro, Sherpa che preparano i campi ed attrezzano le pareti, il tutto è finalizzato al risultato e non al vivere l’esperienza nella sua completezza.
Ci sono molti visitatori del nostro portale che conoscono lei e Romano personalmente, avendovi incontrati in conferenze in toscana. Tanti vi apprezzano anche per le vostre qualità umane. Quanto il raggiungimento di ambiziosi traguardi sportivi ha plasmato il vostro carattere?
Non penso che il nostro carattere sia stato più di tanto condizionato. Per fortuna la molla che ci ha spinto verso la montagna e l’alpinismo, quella che ci ha fatto iniziare, è rimasta invariata, è sempre quella e con la medesima forza. Questo perché anche i risultati più conosciuti della nostra attività, come i tre 8000 in venti giorni o l’Everest senza ossigeno, non sono stati record che abbiamo cercato, sono venuti. Solo per raccontare un aneddoto sulla prima impresa che ho citato, ricordo che il governo pakistano in quel periodo, per far fronte al crollo del turismo del momento, aveva pensato di offrire dei pacchetti a prezzo agevolato con i permessi alle tre cime e noi li acquistammo; in quella circostanza fummo bravi e fortunati e riuscimmo nell’impresa di salirle tutte e tre. Perciò mi sento di dire che i risultati ottenuti non hanno certamente cambiato il nostro modo di essere; sono cambiati alcuni aspetti della nostra vita, questo si, ma non il nostro modo di affrontare la montagna.
Come la montagna anche la vita presenta a volte asperità a prima vista insormontabili che ci mettono a dura prova. Nella commovente lettera di saluto di sua sorella Leila a Luca Vuerich traspare tutta la forza di un legame indissolubile con la montagna e con chi la frequenta. Qual’è il sentimento predominante che si prova durante un’arrampicata dopo un dolore così grande?
Da quel tragico 22 gennaio non sono ancora riuscita ad andare in montagna, non perché non voglia ma per altri impegni. Di certo non è vero che la montagna è assassina, non ha un anima e non è interessata alla presenza umana. La montagna c’è e basta. Appena avrò la possibilità, assieme a Romano, tornerò sicuramente in montagna e lo farò con lo stesso sentimento di sempre. Purtroppo gli incidenti accadono, quello di Luca è stato un incidente dolorosissimo. Con lui avevamo salito ben cinque 8000, era compagno di Leila, eravamo una piccola famigliola che andava in giro per il mondo. Questo però non cambierà il nostro modo di interpretare la montagna.
Mi piace ricordare Luca con una delle tante situazioni estreme che ci siamo trovati a vivere assieme: nell’inverno 2008 stavamo tentando di salire il Makalu in invernale, eravamo completamente soli ed isolati, sotto di noi a 4000 mt. aveva nevicato ed era difficile anche in caso di emergenza raggiungerci. Più in quota, rispetto alla nostra posizione c’erano delle condizioni impossibili tanto che riuscimmo a raggiungere solo i 7000 mt. A 8000 mt. il vento soffiava a 230 km/h. Al campo base il vento era intorno ai 100 km/h con continue raffiche per cui era difficile anche dormire di notte. Riuscivamo a stare fuori solamente qualche istante e solo per cercare di riparare le tende; in quella situazione perdere la tenda voleva dire perdere la vita. Era necessario non perdere il controllo su ogni minima cosa; ecco il controllo dei particolari: cordini, cerniere e tutto l’equipaggiamento. Improvvisamente una tromba d’aria distrusse completamente il campo base portandoci via tutto. A quel punto eravamo senza riparo ne viveri; in tre (Romano, Luca e Nives ndr) siamo dovuti scappare via, non avevamo alternative.
Dovevamo cercare di abbassarci il più possibile di quota, eravamo a 5800 mt., dovevamo cercare di raggiungere almeno i 5000 mt. e li sperare che i portatori dai villaggi sottostanti, in 6/7 giorni di cammino, riuscissero a raggiungerci. Nella discesa con gli zaini, con dentro quelle poche cose che eravamo riusciti a recuperare, e sempre in presenza di un vento elevato, l’ennesima raffica mi scaraventò a terra e con il mio piede, che rimase incastrato tra due sassi, li proprio ad aspettare me, mi ruppi la caviglia. Grossissimo problema perché eravamo ancora a 5600/5500 mt., c’era un ghiacciaio da superare per raggiungere il campo sottostante. Dovevamo cercare, contando solamente sulle nostre forze, la soluzione più economica e funzionale per il raggiungimento dell’obiettivo che in quel momento era salvarci la pelle.
Così Romano e Luca dovettero portarmi per due giorni a spalla, alternandosi, lungo un percorso non agevole; con il telefono satellitare riuscimmo a stabilire un contatto con l’agenzia e miracolosamente ci raggiunse un elicottero russo che approfittò di una tregua del maltempo per trarci in salvo. Siamo stati fortunati perché sono riusciti a raggiungerci in condizioni di tempo estremamente marginale, con un vento impossibile. Atterrarono con il loro grosso elicottero, aprirono il portellone, io ero in spalla a Romano e l’equipaggio ci urlò qualcosa di incomprensibile ma dai gesti capimmo che dovevamo salire immediatamente perché il tempo poteva cambiare da un istante all’altro, non permettendo all’elicottero di decollare di nuovo. In volo c’erano delle raffiche fortissime, sembrava quasi che la coda dell’elicottero in alcuni momenti ci sorpassasse! Esperienze così intense che non possono lasciarti altro che uno straordinario ricordo di chi ora non c’è più.
Nel nostro paese secondo lei può essere fatto qualcosa in più per favorire l’alpinismo e per promuovere le nostre montagne?
Sicuramente si; l’alpinismo deve essere visto come una scuola e come tale deve essere promosso. Una scuola utile per la crescita personale; per fare un esempio l’alpinismo viene utilizzato anche come terapia, in caso di disagio mentale o per la risoluzione di problematiche in età pediatrica. L’arrampicata è utile proprio per insegnare anche a coordinare i movimenti e quindi ha sicuramente diversi campi d’interesse. Il punto è che dovremmo far di tutto perché i media cambino il loro modo di descrivere e raccontare la montagna. In primo luogo dovrebbero smettere di scrivere le solite banalità della “montagna assassina” o terminologie simili, smettere di parlare dell’alpinista come di un eroe che va e sfida la montagna. Bisognerebbe che i media avessero un approccio più culturale verso l’alpinismo; è logico che non si può pretendere che tutti i giornalisti sappiano di montagna, spesso sembra però che l’unico interesse sia quello di creare clamore per vendere il prodotto, presentando gli eventi in maniera semplicistica e sensazionalistica.
Un atteggiamento più culturale verso l’alpinismo contribuirebbe ad avvicinare più persone a questa attività. Attività che è anche fondamentale per aiutare le persone che vivono in montagna; indubbiamente la vita in quota è più complessa, ma dare la possibilità alle persone che vivono in montagna di poter continuare a farlo, contribuendo ad agevolare le attività come l’alpinismo, è sicuramente un modo per evitare anche lo spopolamento di certi luoghi. Al giorno d’oggi non è più sufficiente, come 50 anni fa, avere quattro o cinque mucche in stalla ed un campo per sopravvivere; dare la possibilità di sfruttare a pieno tutte le alternative che ogni località montana offre, passando anche per una corretta informazione, vuol dire anche dare la possibilità a chi ci vive di non abbandonare i nostri rilievi.
A nome di tutti i visitatori del sito la ringrazio ancora per il tempo che ci ha dedicato. Approfitto per riportarle l’invito degli alpinisti apuani a fare loro visita; inutile dirle che avrebbero molto piacere ad accompagnare lei e Romano in qualche interessante arrampicata sulle vette Apuane.
Io ringrazio tutti e spero davvero di poter riuscire ad arrampicare sulle Apuane, anche perché sono montagne che presentano delle condizioni particolari, vicino al mare, in un ambiente così diverso da quello al quale siamo abituati noi qui in Friuli. Quando con Romano ci siamo recati in quelle zone l’accoglienza è sempre stata calorosa e faremo di tutto per tornarci.