Garfagnana Trekking 9^ tappa


Foto 1

Rifugio Bargetana – San Pellegrino in Alpe
Tempo di percorrenza 7 ore e 30

Si tratta della penultima tappa del GT, quella che permette di raggiungere il tetto del trekking e dell’intera Toscana, quel M. Prado che si divide fra due parchi (Orecchiella e Gigante) recentemente unificati nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-emiliano. Dal Rifugio Bargetana (m. 1.731), ci s’inserisce verso sudest nella pista sterrata che accede al rifugio proveniente dalla Presa Alta. Dopo circa venti minuti, durante i quali si trascurano a destra alcune diramazioni sentieristiche non ufficiali, s’incontra la deviazione contrassegnata 631 che, con rotta a sud, transita inizialmente al disotto dello sperone roccioso del M. Cipolla.


Foto 2

Su questa traccia si rimonta il ripiano in parte erboso in parte morenico che chiude l’ampio circo della Bargetana, sede di uno degli ultimi ghiacciai estintisi nell’Appennino Settentrionale. In breve s’arriva dinnanzi le rive del magnifico Lago Bargetana (m. 1.769) (foto 1) che, al contrario di quanto può sembrare, fu creato artificialmente negli anni ’70 del XX secolo allagando una torbiera. Nei pressi di questo autentico paradiso ambientale, patria della marmotta, una lapide ricorda il camminatore Giacomo Gaspari, deceduto nell’agosto del 1985. Transitando lungo la sponda occidentale del lago, si raggiunge un pontetto con il quale si guada l’emissario.


Foto 3

A fatica, si sale l’ampio e battuto sentiero che, con una verticale un po’ accidentata tra le brughiere, lascia a destra una torbiera ancora intatta ed esce sul crinale nordovest del M. Prado, all’ampia Sella omonima (m. 1.903). (foto 2) Nuovamente collegato all’itinerario 00 lasciato al Passo di Romecchio, al GT si aggiungono pure i segnavia dell’Airone 3 (sentiero dell’Orecchiella). In direzione sud si percorre lo spartiacque sull’esile traccia in erba che rimonta ripidamente lo spallone occidentale del Prado. In bella vista di tutta l’area della Bargetana, dominata a nord dal M. Cusna, si risalgono le ultime gobbe rocciose che fungono da anticamera della cima del M. Prado (m. 2.054), (foto 3) la terza vetta per altezza dell’Appennino Settentrionale (prima della Toscana), erroneamente nominata M. Prato negli anni ’30 del XX secolo.


Foto 4

Esso (foto 4) si presenta come un vasto massiccio tozzo ed articolato, più mosso e scosceso sui versanti settentrionali, più dolce e pascolivo in quelli meridionali. Abbandonata la vetta, autentico balcone su tutto il territorio garfagnino e sulle cime del versante reggiano, si procede ancora con rotta a sud, oltrepassando a sinistra il curioso Sprone di M. Prado o Sassofratto. Ci si abbassa all’evidente sella nord del M. Vecchio (m. 1.932), alti sulla valletta dello Spatola, quindi, scavalcate due modeste gobbe che stazionano sugli immensi pascoli girovagati dai caprioli, ci si appresta a puntare la trapezoidale cima del M. Vecchio (m. 1.982), (foto 5) cui spicca la propaggine occidentale degli Scaloni.


Foto 5

Tagliato il versante est del M. Vecchio (si può raggiungere la vicina vetta con una breve deviazione), si prosegue con andamento pianeggiante, quindi, camminando su prato, si raggiunge piuttosto velocemente la separazione col percorso Airone 3 che qui se ne va verso la Toscana assieme ai segnavia 58, 64 e 66, rispettivamente diretti a Campaiana, al Centro Visitatori dell’Orecchiella e a Lamarossa. Il GT prende ora di mira il versante nord del vicinissimo M. Cella (m. 1.946), di forma appuntita, (foto 6) oltre il quale, con una rasoiata in costa ricoperta a mirtillo, tocca una focetta, aggira a sinistra una gobba e raggiunge in discesa il ventilatissimo Passo Bocca di Massa (m. 1.812). (foto 7)


Foto 6

Questo antico valico di accesso dei pastori di Massa e Sassorosso diretti ai pascoli del M. Cella, conserva l’itinerario CAI 54 che sale da Casone di Profecchia; verso nord, invece, assieme ai percorsi GEA e Sentiero Spallanzani, arriva dal Rifugio Battisti l’itinerario 633. Mantenendosi sul versante emiliano, affacciato sulla Val Dolo, il sentiero corre ad attraversare due modesti rilievi, oltre i quali giunge alla sella ovest delle Forbici (m. 1.781), aperta verso la Toscana sul sottostante Rifugio Cella. Ci si appresta ora ad attraversare il versante settentrionale della vetta detta Le Forbici (m. 1.817, denominata Marinella nel XIX secolo), ma senza toccarla, giacché si resta appena più in basso, si cammina alti sugli scoscendimenti prativi che fanno capolinea ad una vasta copertura a faggio.


Foto 7

Quello che il GT sta prospettando è il saluto finale all’alto Appennino, infatti, dopo una buona camminata in piano, esso fa il suo ingresso in un fitto bosco di faggi (foto 8) e comincia a calare di quota fino a confluire sulla pista forestale che sale da Casone di Profecchia. La si segue a sinistra, fino a raggiungere la vicina cappelletta al Passo delle Forbici (m. 1.575), valico storico tra l’alta Val Dolo e la Garfagnana, oggi servito da tre strade forestali, attualmente di libero accesso estivo ai mezzi motorizzati soltanto dal versante toscano. Questa rete di strade forestali si presta a percorsi cicloturistici ed equestri in estate e di sci di fondo escursionistico in inverno, diretti all’Abetina Reale, alla Lama Lite, in Val d’Ozola, al Passo delle Radici ed a San Geminiano.


Foto 8

Come già anticipato, sul valico sorge una cappelletta (foto 9) a ricordo dei raduni che qui si tenevano nei primi decenni del XX secolo a favore di una strada di valico, poi mai realizzata, per la vicinanza del Passo delle Radici; alcune lapidi all’interno ricordano Giovanni Pascoli. Di fronte alla cappelletta si trova un monumento dedicato ai caduti della seconda guerra mondiale. Trascurati a sinistra la sterrata proveniente dal Rifugio Segheria Abetina Reale ed il segnavia 603 diretto a Civago, si continua sulla pista forestale che corre all’interno della faggeta. Con essa si raggiunge l’antico Passo delle Forbici (oggi semplice punto d’arrivo dell’itinerario 691 proveniente da Civago), quindi, in leggera salita, ci si porta all’uscita del bosco, ove poco sotto sgorga una fresca fonte con abbeveratoio.


Foto 9

In breve si raggiunge il ventilato Passo Giovarello (m. 1.663), ai piedi dell’omonimo monte, dove si tralascia a sinistra l’itinerario 601 per La Romita, nonché la prosecuzione della pista sterrata che cala sia al Passo delle Radici sia a Piandelagotti (via Rifugio Prati Fiorentini). In direzione sudest (destra), si rimontano un paio di groppe, dove si evidenzia una grossa croce in ferrotubo. Camminando in cresta prativa, si raggiunge velocemente l’attacco a nordovest della Cima La Nuda (m. 1.708), erbosa e panoramica. (foto 10) Denominata torbiera delle Maccherie, l’area si privilegia d’antichi pascoli che offrono belle vedute sulla sottostante campagna a nord, nonché sul Rifugio Prati Fiorentini.


Foto 10

In seguito si fa ingresso in una faggeta, percorsa da antichi sentieri di carbonai e cacciatori, ed all’interno di questa si evitano le boscose vette della Cima dei Laghi (m. 1.693) e dell’Alpicella delle Radici (m. 1.682). Una serie di saliscendi portano ad un orticheto e ad una combine tra faggi ed abeti, quindi, ancora con l’esclusiva del faggio, vanno ad attraversare una serie di fossetti che alimentano le vallette del Calamone e della Fornacetta. Nel punto in cui il sentiero pianeggia, affiorano nel bosco numerosi blocchi erratici ricoperti di muschio (foto 11) e di lì a poco il sentiero s’allarga fino a divenire stradello forestale a fondo naturale. Aree prative cominciano a prendere il sopravvento, intanto, giunti ad un trivio, ci si tiene a destra, lasciando così il percorso V.B. diretto a San Geminiano, Frassinoro e La Piana.


Foto 11

Dopo altri dieci minuti circa di discesa, si perviene anche al bivio con il Sentiero Matilde che, assieme alla sterrata di sinistra, se ne va a Fontanaluccia (via Rifugio Prati Fiorentini). Gli ultimi trecento metri circa di pista sterrata conducono definitivamente al Passo delle Radici (m. 1.527), (foto 12) valico tra i bacini dei fiumi Secchia (Val Dragone, Modena) e Serchio (Garfagnana, Lucca). Utilizzato in epoca medievale soprattutto dagli spostamenti di Matilde di Canossa, il Passo delle Radici assunse nel tempo diversi toponimi tra cui Piano dell’Alpicella e Valico di San Pellegrino. Trascurato a sinistra un itinerario che porta a Piandelagotti, il GT attraversa la rotabile e passa accanto ad una struttura ricettiva cui è possibile pernottare grazie ad una base trekking ed all’albergo stesso (buona cucina).


Foto 12

Trascurando il trivio stradale (a nord per Casone di Profecchia e poi Castiglione; ad est per S. Anna Pelago; a sud per il Passo delle Radici), si lasciano a sinistra una fonte, un monumento ed una cappelletta (foto 13) per seguire una traccia non molto chiara calare nello spiazzo erboso a lato dell’albergo, dove sono presenti alcuni impianti di risalita. Scesi lungo il prato (che poi è una pista da sci), si ricerca a sinistra una mulattiera che piega verso il bosco e l’immediato scavalcamento di un fosso, affluente della Fornacetta. Oltrepassato uno slargo, si prosegue sull’ampio tracciato che più avanti tende a restringersi, quindi, si guadano una serie di corsi d’acqua che piovono sulla sottostante valletta della Fornacetta popolata da caprioli.


Foto 13

Più volte si entra e si esce dal bosco, si supera un tratto in cui si pone in evidenza una grossa frana (foto 14) e si continua lungo un camminamento naturalistico purtroppo guastato dall’ingombrante presenza dei pali della corrente elettrica. Ad un certo punto l’ampia mulattiera confluisce in una sterrata da seguire in salita; essa oltrepassa le vecchie case Bianchi e Verna e piega ad est sulle belle praterie in cui poggia la Casa Alpina Il Pradaccio (m. 1.495), (foto 15) dove è possibile ristorarsi. Al primo bivio si va a destra e sempre sulla sterrata, che transita alta su una costruzione, si superano rispettivamente i fossi della Verna e del Freddone. Prima di raggiungere la rotabile che collega il Passo delle Radici a San Pellegrino, c’è ancora da sopportare una buona quindicina di minuti di cammino con uno strappo finale in salita piuttosto sostenuto.


Foto 14

Una volta sulla strada si procede in discesa per pochi metri e si arriva nel cuore di San Pellegrino in Alpe (m. 1.524), (foto 16) località che per secoli catalizzò commerci e peregrinazioni devozionali tra i due versanti montani. Qui si trovano diverse strutture ricettive in cui è possibile mangiare, alloggiare e fare rifornimenti. La prima cosa che viene da chiedersi giungendo a San Pellegrino in Alpe è il motivo che spinse i fondatori a costruire un simile insediamento in quest’aspra località montana. La risposta è nella fede e nella carità che animavano molti uomini nel Medioevo e che imperterriti percorrevano lunghi itinerari a piedi (potremmo definirli gli antesignani del trekking) sfruttando i valichi allora esistenti. In uno di questi (S. Pellegrino), da tempo utilizzato solo stagionalmente dalle greggi transumanti, una comunità cristiana costituitasi con l’intento di assistere gratuitamente i viandanti, costruì un’Ospitale (ospizio, ospedale, spedale).


Foto 15

Le prime notizie del complesso, risalenti all’anno 1110, sono contenute in un atto di donazione di alcune case in località Terme Saloni da parte di Bonatto al rettore dell’Hospitale di S. Pellegrino. Lo spedale assunse nel tempo una notevole importanza ricevendo benefici e donazioni di papi ed imperatori. Il complesso religioso a carattere spedaliero fu ricostruito ed ampliato nel XV secolo, quando si affermò il pellegrinaggio devozionale ai santi eremiti Pellegrino e Bianco, le cui reliquie sono conservate nella chiesa sotto un tempietto di marmo chiuso da vetro, opera dello scultore lucchese Matteo Civitali. A proposito di queste reliquie (ritenute per lo più leggendarie) occorre ricordare come molti fedeli siano soliti depositare in appositi cestini posti sul tempietto bigliettini con scritte le loro preghiere di grazia per guarigioni ritenute scientificamente improbabili.


Foto 16

La devozione accordata a queste reliquie sia dagli emiliani che dai toscani, unita alla consapevolezza dell’importanza strategica e commerciale della località, dette vita ad aspre contese tra Lucchesi ed Estensi che proseguirono fino all’unità d’Italia. Il bello è che la vicenda fu risolta seguendo non criteri geografici, bensì salomonici: il confine tra i comuni di Castiglione Garfagnana e Frassinoro (Toscana ed Emilia), fu ratificato in corrispondenza dello spartiacque appenninico, ma una porzione del paese di San Pellegrino venne assegnato al comune di Frassinoro (Modena) ed il confine di questa “exclave” fu tracciato in modo da dividere addirittura a metà i corpi dei due santi. L’originale situazione amministrativa in seguito non venne più modificata, pertanto, l’invisibile linea di demarcazione continua ancor oggi a sussistere. Nei locali dell’antico spedale, (foto 17) attualmente adibiti a museo, è conservato un bassorilievo raffigurante S. Pellegrino con scarsella e bordone, simboli tipici del pellegrinaggio medievale.


Foto 17

Altre due note importanti relative a questo luogo sacro sono il Giro del Diavolo ed il Museo etnografico. Il Giro del Diavolo è un percorso penitenziale in ricordo del luogo dove un certo Pellegrino (figlio di un re di Scozia) resistette alle tentazioni del demonio. La leggenda narra che il diavolo, irritato dalla resistenza che Pellegrino opponeva alle sue tentazioni, lo schiaffeggiò così forte da farlo girare su se stesso per ben tre volte (un’altra leggenda dice addirittura che lo schiaffo lo fece volare al di là della valle e finire nel Mar Tirreno una volta trapassata la catena apuana, dando così origine all’arco del M. Forato). Comunque, da quell’episodio iniziò, con il tempo, una tradizione di tipo penitenziale: qui, infatti, vennero e vengono tutt’oggi pellegrini in segno di devozione e penitenza per chiedere perdono dei propri peccati. Una sorta di pellegrinaggio effettuato trasportando un sasso sulle spalle per depositarlo al centro del campo dopo aver compiuto tre giri del luogo. La grandezza del masso viene stabilita dai penitenti in funzione della gravità del peccato. Il museo etnografico vede la sua inaugurazione nel 1970 grazie a Don Luigi Pellegrini che ebbe l’intuito di raccogliere utensili obsoleti dalle case delle famiglie della Garfagnana e di quelle del versante emiliano. Gli oggetti, espressione della tradizione artigiana, contadina e pastorale dei luoghi, sono tutti databili tra gli inizi del XIX secolo e i nostri giorni.

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