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Monte Argegna – Passo di Pradarena Se la tappa precedente era quella che sanciva il distacco dalle Alpi Apuane, questa è certamente la prima che permette d’assaggiare lo spartiacque appenninico toscoemiliano. Dal posto tappa di Colle Argegna (m. 1.034), si segue in salita la rotabile che verso nord passa leggermente ad est del cucuzzolo erboso. Uscita da un viale alberato, essa mostra una buona panoramica sia sulle Alpi Apuane sia sull’Appennino, dove si nota anche una piccola porzione de La Nuda. Fiancheggiando vasti pascoli e sparute macchie boschive (conifere e carpini), la strada va ad attraversare, prima ad est e poi a nord, |
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Il Montale (m. 1.030), quindi, comincia a calare trovando ad un certo punto, poco prima del Passo di Tea, una breve deviazione a sinistra che porta a conoscere un interessante sito archeologico: l’Ospedale San Nicolao di Tea. (foto 1) Il ritrovamento di manufatti d’età romana presso le praterie di Tea e nel vicino castello di Regnano, documentano la frequentazione del valico almeno dall’età imperiale, un’importanza ulteriormente rafforzata a partire dal XII secolo quando venne fondato l’ospizio. La prima notizia del San Nicolao risale al 1229, anno in cui papa Gregorio IX investì i signori della Garfagnana di un ampio territorio che includeva “l’Hospitale Tade”. Originariamente il complesso era formato da una chiesa, con una sola abside, e da uno spedale, ricostruito integralmente nel XIII secolo probabilmente in seguito a danni provocati da un evento sismico. |
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La nuova struttura fu ampliata per l’accresciuto transito di viandanti e pellegrini e per l’intensificarsi degli scambi commerciali tra Lucca e la Liguria. Nello stesso periodo i documenti citano l’ospedale come tappa dell’itinerario interno della Via Francigena. È nuovamente documentato, come dipendente della Pieve di San Lorenzo a Minucciano, nelle Decime della Diocesi di Luni dei secoli XIII – XV, scomparendo definitivamente dalla documentazione tra il XVI ed il XVII secolo. Scesi al Passo di Tea (m. 955), dove si nota una cappelletta con bassorilievo dedicato a Maria SS. Addolorata, si trascurano rispettivamente a destra e a sinistra le strade che convergono da Giuncugnano (segnavia CAI per Magliano e Ponteccio) e Pugliano (antico tracciato per carrareccia), e si prosegue sulla rotabile di fronte che si dirige verso il pascolivo M. Cucù. |
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Divenuta sterrata, la pista pare interminabile, (foto 2) intanto, in pieno contesto agricolo, essa continua a correre sullo spartiacque Aulella-Serchio, sbarramento naturale tra la Lunigiana e la Garfagnana. Superato un viale di carpini, si oltrepassa una capanna privata chiusa da recinzione, quindi, si perviene alla Contrada Tea (m. 1.051), crocevia di sterrate dove a sinistra scende quella per Regnano. Pochi metri avanti si raggiunge una fontana datata 1962, (foto 3) nei cui pressi il GT si diparte a sinistra per un viottolo che rimonta il bosco. Lasciata dunque la sterrata che porta al Rifugio M. Tondo, si sale tra castagni, felci e querce lungo il versante meridionale del M. Tre Potenze, modesto e boscoso rilievo la cui punta massima delimita ancora il confine territoriale. Per un attimo si resta al di fuori di una distesa di querce, poi, oltre il M. Tre Potenze, si percorre un tratto pianeggiante che porta velocemente alle pendici meridionali della Cima Cervia. |
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In località boschiva “la Faggiola”, che come il toponimo indica trattasi di una distesa a faggio, si guadagnano i 1.337 metri della cima, oltre la quale si riprende a pianeggiare comodamente (foto 4) non escludendo affatto probabili incontri con il capriolo e con lo scoiattolo che qui trovano un loro habitat ideale. Il successivo tratto nel bosco va a confluire in una sorta di pista forestale che sale dalla sottostante (e per un attimo visibile) sterrata lasciata alla fonte (essa, in questo punto, compie una larga svolta per aggirare il Colle Campolungo). A diritto ci si porta verso il solco di un valloncello (affluente del Fosso Grosso) di cui se ne risale la destra idrografica. Dopo il guado, si compie una netta diagonale e con tosta pendenza ci si alza in costa restando sempre ad est dalla linea di crinale. Passati leggermente al disotto della Folletta, ci si alza ancora ad aggirare ad oriente un avancorpo boscoso quotato circa 1.700 metri, alle cui pendici si notano tracce di antiche carbonaie. |
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Quella del carbonaio in Appennino può considerarsi un’arte definitivamente perduta. Con l’avvento dei fornelli elettrici e del gas in bombole la figura del carbonaio ha perso ineluttabilmente la propria consistenza e con essa tutti quegli aloni di misteri e tradizioni che nei secoli tramandava. La costante salita nel bosco prosegue passando poco a monte di una sorgente (probabile presenza del capriolo), quindi, faticosamente, va a superare un altro fossato, oltre il quale tratti pianeggianti s’alternano a brevi salite. L’attacco da sud al M. Tondo trova ad un certo punto una seconda fontana con abbeveratoio, (foto 5) purtroppo quasi asciutta nei periodi di maggiore siccità, la quale da non molto tempo ha sostituito l’arcaico, ma strategico e funzionale, assemblaggio combinato con elementi ricavati nel posto, come pietre e legna. (foto 6) Un ultimo tratto più tranquillo nel bosco conduce nei pressi di una terza fontana che garantisce un gettito fresco e continuato. Da questo preciso istante si esce dal bosco e si cominciano a percorrere i sistemi prativi che declinano a sud del M. Tondo. |
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Dopo alcune decine di metri però occorre prestare molta attenzione ad abbandonare il tracciato principale per seguire a sinistra un marcato sentiero che, assai panoramico sul vicinissimo M. Posola e sulla Valle del Serchio con lo sfondo delle Alpi Apuane, compie una netta diagonale e giunge ad una foce sul crinale. (foto 7) Qui si lascia a sinistra l’itinerario 90 diretto alla carrozzabile che collega Uglianfreddo a Regnano e con piega netta a destra si rimonta l’oramai vicina cima del M. Tondo (m. 1.782) che, come il toponimo indica, appare di forma mammellare, completamente erbosa e priva di asperità. (foto 8) Davvero spettacolare la visuale panoramica che, oltre alle oramai lontane Alpi Apuane, sbatte in modo impressionante sul complesso montuoso de La Nuda (foto 9) e, a seguire verso sud, sul suo prolungamento segnato dalla Cima Belfiore e dal Termine Tre Potenze; guardando verso est si scopre in lontananza il M. Ventasso. |
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Con rotta a nord ci si abbassa lungo il crinale senza traccia ben definita, quindi, passata la poco chiara deviazione dell’itinerario 88 diretto a Castiglione di Mommio, ci si allaccia al segnavia 86 proveniente da sud dal Rifugio M. Tondo e, assieme ad esso, si continua sullo spartiacque fino ad un bivio dove nasce una doppia possibilità per seguire il GT: a sinistra si diparte la variante che continua sul filo di cresta e che porta al cippo confinario del Termine Tre Potenze (m. 1.771), ai piedi della Cima Belfiore, (foto 10) dove s’incontrano i segnavia 00 e GEA provenienti dal Passo di Pradarena e diretti ad ovest verso il Passo del Cerreto; a destra, invece, continua l’itinerario 86, il quale resta più basso e taglia campi di mirtilli e macchie a faggio. Con quest’ultimo si sbuca poi improvvisamente nella bellissima conca prativa (foto 11) che fa da testata alla valletta del Redina e, superata la sorgente che la origina, si rientra nella faggeta. |
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Passati un paio di rigagnoli, si esce dal bosco e ci si ricongiunge alla variante alta prima descritta, ora contrassegnata pure GEA e 00. Affacciati sulla boscosa Valle del Riarbero con lo sfondo occupato dai monti Casarola e Ventasso, si procede verso nord-est, lasciando fin da subito a sinistra la deviazione contrassegnata 649 diretta a Cerreto dell’Alpi. Assai comodamente si percorre un tratto all’interno della faggeta (foto 12) e puntando verso i rilievi spelacchiati dei monti Scalocchi e Ischia, (foto 13) si raggiungono le pendici del primo, nei pressi di una focetta. Aggiratolo prima a sud e poi ad ovest per mezzo d’una traccia esposta che resta leggermente inferiore alla vetta, si perviene ad una seconda e ventilatissima foce, da cui, con un taglio netto in erba sul versante tirrenico, si sale senza sofferenze alla vetta del M. Ischia. (foto 14) |
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Da qui in poi ci si stacca dal crinale e ci si abbassa con pendenza sempre più tosta all’interno di una faggeta ad alto fusto che, senza particolari variazioni, porta al celato Passo di Cavorsella (m. 1.507), (foto 15) dove transita una pista forestale proveniente dal Passo di Pradarena recentemente ripristinata a favore delle attività agro-silvo-pastorali. Al Passo di Cavorsella s’incontrano altri due itinerari CAI: il 645 proveniente da Il Bottaccio – La Buca (Ospitaletto) ed il 647 che sale da Cerreto dell’Alpi. Proseguendo verso nord-est (destra), lungo la pista sterrata, si resta all’interno della faggeta, raggiungendo ben presto lo sbocco dell’itinerario 82 che sale da Dalli. Più avanti la pista comincia lievemente a salire ed incontra, sempre a destra, una seconda deviazione che consente di scendere verso l’alta valle di Sillano, più precisamente a Lagnetti di Lamastrone e Dalli. |
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Restano altri quindici minuti circa di tranquilla passeggiata nel bosco prima che la sterrata vada a confluire nella strada provinciale che collega sul crinale appenninico la Val d’Ozola alla Garfagnana. Posto ai piedi del M. Cavalbianco, il Passo di Pradarena (m. 1.575) (foto 16) si suppone fosse già utilizzato in epoca romana (forse sulla direttrice Parma-Lucca [Transitus Caferoniensis]), mentre è certo che in epoca medievale fu punto di transito ed appoggio per i pellegrini diretti a Lucca e a Roma. Qui ci si trova sul confine tra Emilia e Toscana (province di Reggio Emilia e Lucca) e sono presenti all’interno della macchia boschiva circostante alcune panche, tavolini in legno ed attrezzature per il barbecue; inoltre, da una parte, si notano un monumento dedicato ai partigiani ed una maestà. Il panorama che si può gustare vede a nord la Pietra di Bismantova e le vallate della Rossendola e del Secchia; a sud le Alpi Apuane e la Valle del Serchio. Oltre al nostro GT, alla GEA ed allo 00, al Passo di Pradarena arrivano altri due itinerari: il 643 che da Ospitaletto sale al Cavalbianco; il 639 che, sempre da Ospitaletto, porta alla Presa Alta. |
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Per quanto riguarda il pernottamento è possibile usufruire dell’unica struttura presente (albergo/ristorante) al passo, oppure scendere sul versante toscano alle Capanne di Sillano, o su quello emiliano al vicino paesino di Ospitaletto. Ad oggi al Passo di Pradarena esiste l’albergo Carpe Diem, gradevole nel suo insieme sia per il comfort sia per la cucina di tutto rispetto anche se un po’ troppo contenuta nelle porzioni. La sua storia è assolutamente recente, ma vanta il privilegio di potersi inglobare nelle remote avventure consumatesi al passo. All’interno del locale è infatti possibile rivivere leggendo alcune tavole le vicende che portarono alla realizzazione ed alla crescita di questo antico ospizio, attraverso le ordinarie quotidianità di umili personaggi le cui tracce nel tempo si sarebbero dissolte o dimenticate. |
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Dieci personaggi, dieci storie diverse, un unico fine. Il racconto comincia con la Badessa, unica figura femminile, tra l’altro proveniente da un convento, salita fin quassù alla ricerca di una maggiore concentrazione per le sue preghiere. A lei fa seguito il Carbonaio, stabilitosi lì per scelta e per lavoro, lontano dai segni della civiltà dove pochi osavano andare. Un tipo alquanto strano che sapeva tutto delle foreste e che la solitudine spesso lo spingeva a conversare coi muli, unico paio di orecchie disposte ad ascoltarlo. Terzo personaggio il Doganiere, costretto dai comandi militari in attesa di riscuotere dazi ai mercanti che trasportavano sale, castagne, farina, vino e liquori. Stando alla narrazione però i contrabbandieri passavano furtivamente dietro il colletto del Cavalbianco, cosa che tutti, compreso il Doganiere, sapevano, ma che a nessuno importava. |
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Lui stava lì, dimenticato e forse punito per qualche sgarbo fatto a qualcuno, convinto di trascorrere il resto della sua vita nell’oblio e nella solitudine. Ciascuno dei personaggi appena citati aveva sistemato la propria nicchia con cura apportando modifiche e migliorie nel resto della costruzione, giuste per ricavare altri modesti alloggi pronti ad accogliere viandanti o pellegrini. La breve stagione utile a far rifiorire il Passo di Pradarena stava cominciando. All’inizio della primavera arrivò un Mercante proveniente dal nord che chiese ospitalità per qualche giorno. Offrì del denaro e del tabacco ed ottenne una camera per sé ed un ricovero per il cavallo. Passarono giorni, settimane e mesi di lunghe passeggiate ma il grasso mercante ancora non se n’era andato via. Con i primi fiori giunse poi il Mulattiere che da anni frequentava il Passo e che già conosceva la Badessa, il Carbonaio ed il Doganiere. |
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Aveva grandi mani, unghie spesse, pochi denti ed uno sguardo severo; per dormire aveva sempre utilizzato un ricovero d’emergenza fatto di legno e frasche e che ogni anno opportunamente risistemava. Anch’egli chiese di trascorrere un po’ di tempo in una stanza dell’Ospitale ed ogni sera, rientrato coi muli, dava una mano per sistemare altre stanze. Intanto per la Badessa il lavoro in cucina aumentava sensibilmente. Non erano ancora finiti i lavori che arrivò un uomo dai modi civili, con abiti da cittadino e senza bagaglio. Chiese di poter riposare per qualche ora ma nello scrutare i presenti tradì un sobbalzo alla vista del Doganiere in divisa che l’osservava incuriosito. Si trattava di un Brigante che, stimolato dal mulattiere, accettò una stanza ove ripose per sempre armi e cattive intenzioni. Annunciato da una cantilena e da un tintinnio di sonagli un giorno si presentò un curioso personaggio dalla lunga barba, capelli in disordine, piedi scalzi, abbigliamento assai scomposto e sostenuto da vari cordini alle spalle, alla vita, alle caviglie. Camminava sorreggendosi con un robusto bastone addobbato di campanelli ed un grosso rosario. Disse d’essere un Pellegrino che di santuario in santuario cercava, in totale povertà, di riscattare ed espiare i peccati di una giovinezza troppo agiata. |
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Disse che se lo avessero accolto per qualche tempo avrebbe lavorato duramente senza altro chiedere che un riparo e un po’ di pane. Tutti s’erano dati da fare ed oramai altre stanze erano state riparate. Nei primi caldi stagionali arrivò un uomo di mezza età con un grosso zaino sulle spalle. Chiese di poter mangiare e riposare in attesa di un appuntamento che aveva in città, a valle. Tirò fuori dallo zaino un fiasco di vino e ne offrì a tutti raccontando che faceva il falegname e il ciabattino in un paese dell’alta Garfagnana. Il purosangue Garfagnino guarniva i propri racconti con bestemmie ed imprecazioni tali da far arrossire la Badessa e costringere il Pellegrino a ripetuti segni di Croce. Era un buon diavolo e brontolando riparò nei giorni successivi tutto quello che c’era di legno e che secondo lui “era stato lavorato a bestia”. Qualche giorno più tardi giunse al Passo a dorso di un mulo colui che aveva appuntamento col Garfagnino: il Lombardo. Egli doveva confermare un ordine di mobili per conto di una ricca famiglia reggiana, ma una volta al cospetto di tutti tirò fuori vino e salame che, accompagnati dalle grappe del Garfagnino, portarono ad inebrianti canti. La storia si chiude con l’ultimo dei personaggi, il Viandante, quello che oggi percorre il GT, icona di molte altre persone che per riposo o altro decide di soffermarsi all’Ospitale, al Carpe Diem. |